Quando nell’ambito dello stesso organismo si può riscontrare la presenza di più figure di garanti l’individuazione della responsabilità penale passa anche attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione, atteso che, oltre alle categorie giuridiche, sono importanti i ruoli concretamente esercitati da ciascuno. E’ quanto emerge dalla lettura di questa sentenza della Corte di Cassazione chiamata a decidere su di un ricorso presentato da un dirigente di una struttura pubblica munito di delega agli “interventi ed adeguamenti strutturali, manutenzione di uffici e impianti” condannato nei due primi gradi di giudizio perché ritenuto responsabile delle lesioni gravi subite da un lavoratore dipendente che durante le operazioni di carico delle merci è caduto all’indietro da una banchina sulla quale si trovava essendo questa priva delle protezioni contro la caduta dall’alto. In tema di reati omissivi colposi, ha precisato la suprema Corte, richiamando un principio più volte dalla stessa espresso in precedenza, la responsabilità per un infortunio sul lavoro fra le varie figure garanti della sicurezza in azienda deve essere fatta accertando in concreto la reale titolarità del potere-dovere di gestione della fonte di pericolo che ha portato alla lesione. Nel caso in esame la Cassazione, proprio in applicazione del principio sopraindicato, ha provveduto ad annullare la sentenza di condanna emessa nei confronti del dirigente nei due primi gradi di giudizio in quanto dal documento di delega con il quale era stata attribuita allo stesso la responsabilità sulla manutenzione di uffici e impianti, era emerso che questi non disponeva di autonomi poteri di intervento e di scelta degli interventi da effettuare; non disponeva quindi di una autonomia decisionale in quanto il relativo potere di spesa doveva essere esercitato in accordo con un piano degli interventi definiti dal datore di lavoro. Essendo quindi soggetto a deliberazioni assunte da altre persone non rivestiva pertanto, secondo la suprema Corte, alcuna posizione di garanzia.

Il fatto, la condanna e il ricorso per cassazione

La Corte di Appello ha confermata la sentenza emessa dal Tribunale che ha ritenuto il dirigente di un Centro Meccanizzazione Postale (CMP) delle P.I. Spa responsabile del reato di cui all’art. 590, comma 3 del codice penale per avere cagionato a un dipendente lesioni personali gravi, consistenti in frattura pluriframmentaria alla gamba destra guarita in 387 giorni.

Il dipendente, impiegato nel reparto “ricevimento/invio” con la mansione di addetto allo scarico e al carico delle merci, si trovava sotto una pensilina in corrispondenza della banchina di carico e stava provvedendo al carico di “roller” (carrelli con struttura “a gabbia”, contenenti plichi da recapitare) su un camion, quando, tirando all’indietro uno dei carrelli e non essendosi accorto della fine della banchina, cadeva all’indietro, finendo sul piazzale sottostante. Il carrello, bloccato dalle cinghie, non cadeva sul lavoratore ma ne investiva le gambe. All’epoca dei fatti, l’imputato rivestiva l’incarico di responsabile di un’area del Centro con delega conferita per assicurare la rispondenza dei luoghi di lavoro alle disposizioni normative vigenti, con poteri di spesa nell’ambito di un budget approvato annualmente dall’azienda.

I Giudici del merito avevano ritenuto sussistere il profilo di colpa contestato e ravvisato nella violazione, da parte dell’imputato, degli artt. 63 comma 1 e 64 comma 1, lett. a) del D. Lgs. n. 81/2008, non avendo garantito che la banchina di carico fosse tale da assicurare i lavoratori dal rischio di caduta, in particolare non avendola dotata di barriere di protezione. Il Giudice del Tribunale, in particolare, aveva osservato che, indipendentemente dalla condotta non ortodossa della persona offesa, vi era un concreto rischio di caduta dal bordo della banchina, assai prossimo allo spazio di manovra a disposizione, in considerazione della configurazione dei luoghi, del tipo di manovra da compiere col carrello, del peso delle merci e della limitatezza dello spazio a disposizione e aveva ritenuto, altresì, che l’eventuale distrazione del lavoratore non poteva esimere da colpa l’imputato.

Avverso la sentenza di appello l’imputato, a mezzo del difensore, ha ricorso per cassazione adducendo delle motivazioni. Con un primo motivo il ricorrente ha osservato che la sentenza impugnata aveva utilizzato un unico dato probatorio, costituito dalle dichiarazioni di un teste che non erano state affatto valutate dalla sentenza di primo grado e che, comunque, erano state contraddette da altre dichiarazioni testimoniali quanto alla ricostruzione del fatto storico, del tutto diversa da quella ritenuta in sentenza. Nell’assumere quale unico riferimento probatorio tale testimonianza, la Corte di Appello, secondo l’imputato, aveva considerata la situazione che si verificava solitamente sulla banchina in esame durante le operazioni di carico e non la reale situazione nel momento in cui era accaduto l’infortunio. La caduta del lavoratore, infatti, si era verificata quando la banchina era ormai del tutto sgombra, visto che la persona offesa stava movimentando l’ultimo dei carrelli da caricare sui furgoni postali, diversamente da quanto aveva sostenuto il teste che nella sua deposizione aveva evidenziato che la responsabilità era da addebitare unicamente al lavoratore infortunato che aveva sbagliato nell’andare indietro.

Come seconda motivazione il ricorrente ha eccepito una erronea applicazione degli artt. 40 e 41 del codice penale nonché degli artt. 63 e 64 e dell’Allegato IV, punti 1.3.13 e 1.3.14 del D. Lgs. n. 81/2008, con riferimento all’individuazione dell’omessa installazione delle barriere protettive sui bordi della banchina quale causa dell’evento che si era verificato. Diversamente da quanto assunto nelle sentenze di merito, infatti, il combinato disposto dei punti 1.3.13 e 1.3.14 del D. Lgs. n. 81/2008 prevede unicamente che le banchine di carico debbano “offrire una sicurezza tale da evitare che i lavoratori possano cadere”, atteso che laddove il citato decreto reputi unica misura idonea ad eliminare o mitigare il rischio di caduta contempla esplicitamente l’installazione di balaustre. Una “banchina di carico” come quella su cui si è verificato l’infortunio occorso, ha precisato il ricorrente, non è altro che una particolare specie di luogo di lavoro rientrante nel più ampio genere dei “piani di caricamento”, per i quali la norma prevede l’installazione di protezioni “su tutti i lati aperti” soltanto se l’altezza è superiore ai 2 metri mentre nel caso in esame, l’altezza era inferiore. Peraltro, anche se fossero state apposte le balaustre, ha aggiunto il ricorrente, le stesse non avrebbero evitato la caduta del lavoratore. Il ricorrente, come ulteriore motivazione, ha messo altresì in evidenza la sua concreta posizione di garanzia rivestita nell’ambito della struttura organizzativa della società e il tenore della delega conferitagli dal datore di lavoro. I Giudici si erano infatti limitati a tenere conto della delega senza considerare che il suo reale contenuto andava ricavato dagli ulteriori elementi acquisiti e in particolare dalla valutazione espressa dall’ispettore della ASL intervenuto ad effettuare le indagini che aveva attribuito esclusivamente al datore di lavoro e ad un’altra dirigente da questi delegata (coimputata non appellante) le omissioni dagli stessi reputate penalmente rilevanti.

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione

Il ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione. “In tema di reati omissivi colposi”, ha sostenuto la stessa, “la posizione di garanzia – che può essere generata da investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante – deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere-dovere di protezione dello specifico bene giuridico che necessita di protezione, e di gestione della specifica fonte di pericolo di lesione di tale bene, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro”.

La suprema Corte ha inoltre richiamato quanto dalla stessa ampiamente illustrato in numerose precedenti sentenze e cioè il tema dell’individuazione delle diverse posizioni di garanzia nell’ambito del sistema prevenzionistico della sicurezza del lavoro.  La giurisprudenza, ha ribadito la stessa, ha ampiamente illustrato come si articoli, nel sistema della sicurezza del lavoro, la posizione di garanzia, come essa debba essere definita in linea di principio e come debba essere riconosciuta in concreto con riguardo all’organizzazione aziendale. La materia della individuazione delle posizioni di garanzia è stata parzialmente disciplinata sin dai primi atti normativi del settore ed è stata infine unitariamente trattata nel Testo Unico sulla sicurezza del lavoro di cui al D. Lgs. n. 81/2008. Il sistema prevenzionistico, ha aggiunto la Sez. IV, è tradizionalmente fondato su diverse figure di garanti che incarnano distinte funzioni e diversi livelli di responsabilità organizzativa e gestionale quali il datore di lavoro, il dirigente e il preposto. Per queste due ultime figure, in particolare, occorre tenere conto, da un lato, dei poteri gerarchici e funzionali che costituiscono la base e il limite della responsabilità; e dall’altro, del ruolo di vigilanza e controllo. Si può dire, in breve, che si tratta di soggetti la cui sfera di responsabilità è conformata sui poteri di gestione e controllo di cui concretamente dispongono.

Nell’ambito dello stesso organismo, ha sostenuto ancora la Sez. IV, può quindi riscontrarsi la presenza di più figure di garanti per cui l’individuazione della responsabilità penale passa anche attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione, atteso che, oltre alle categorie giuridiche, rilevano, in particolare, i concreti ruoli esercitati da ciascuno sulla base dei quali si declina la categoria giuridica della posizione di garanzia. La centralità dell’idea di rischio emerge con particolare incisività nel contesto della sicurezza del lavoro, pur esistendo diverse aree di rischio e, parallelamente, distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare. Si può, quindi, affermare che garante è il soggetto che gestisce il rischio. Riconosciuta quindi la sfera di rischio come area che designa l’ambito in cui si esplica l’obbligo di governare le situazioni pericolose che conforma l’obbligo del garante, ne discende altresì la necessità di individuare concretamente la figura istituzionale che può essere razionalmente chiamata a governare il rischio medesimo e la persona fisica che incarna concretamente quel ruolo. Applicando i menzionati principi al caso in esame e ricordando che l’imputazione del ricorrente era stata elevata anche nei confronti di un altro dirigente munito di delega alla sicurezza, è emerso, secondo la Corte di Cassazione, che l’imputato non disponeva di autonomi poteri di intervento e di scelta degli interventi da effettuare e dunque, non disponeva di autonomia decisionale in quanto il relativo potere di spesa doveva essere esercitato in accordo con il Piano degli interventi definiti dal datore di lavoro. Egli, in definitiva, era un organo tecnico con funzioni distinte da quelle dell’unico delegato alla sicurezza ed era soggetto a deliberazioni assunte da altre persone non rivestendo così alcuna posizione di garanzia. Non ravviandosi in conclusione alcuna violazione di cautele ascrivibili all’imputato la Corte di Cassazione ha di conseguenza annullata la sentenza impugnata senza rinvio per non avere l’imputato stesso commesso il fatto.

Gerardo Porreca

FONTE: PUNTO SICURO

Stante l’ampiezza nella definizione di operatore e l’obbligo alla sua formazione definiti nel Testo Unico Sicurezza, è sanzionabile il datore di lavoro che utilizzi macchinari e/o attrezzature senza formazione?

Anche il datore di lavoro è tenuto ad avere un’adeguata formazione tutte le volte in cui utilizza macchinari per l’impiego dei quali la legge richiede idonee conoscenze; tuttavia un’eventuale violazione di questo principio non comporta alcuna sanzione a carico del datore di lavoro stesso.

Questo è quanto emerge dall’interpello n.1/2020 della Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro del Ministero del lavoro, in merito al tema relativo alle sanzioni previste per la violazione degli articoli 71 comma 7 e 73 comma 4 del d.lgs. 81/08 posto all’attenzione dalla Regione Friuli Venezia Giulia.

La Commissione del Ministero ritiene che, a far data dall’entrata in vigore del d.lgs. n.151/2015 sia vietato l’utilizzo di qualsiasi attrezzatura di lavoro per cui sia prevista una specifica abilitazione da parte di qualsiasi ‘operatore’, compreso il datore di lavoro che ne sia privo.

Ma, fatta salva l’applicazione alle singole fattispecie concrete di diverse disposizioni sanzionatorie previste dalla normativa vigente, la Commissione ritiene che l’ambito di operatività del citato articolo 87, comma 2, lettera c) del d.lgs. n. 81/08 debba essere circoscritto alle fattispecie in esso previste, e pertanto le relative sanzioni non possono essere applicate qualora tali attrezzature siano utilizzate dal datore di lavoro.

Il quesito della Regione Friuli Venezia Giulia

La Regione Friuli Venezia Giulia ha posto l’attenzione sull’ampiezza della nozione di operatore, come definito dall’art. 69, comma 1, lettera e) del d. lgs 81/08, e della sua formazione,  art. 71, comma 7, lettera a) del medesimo decreto.

Visto quanto previsto dall’art. 69, comma 1, lettera e) del d.lgs. 81/08, anche il datore di lavoro che utilizza le attrezzature di cui al comma 4 dell’art. 73 è considerato operatore e in quanto tale deve essere formato e abilitato al loro utilizzo. Ciò premesso, in virtù di tale parificazione, si richiede se in caso di omessa abilitazione del datore di lavoro all’utilizzo di attrezzature di cui all’art. 73 comma 4 debba essere ascritta allo stesso la sanzione prevista dall’art. 87 – comma 2, lettera c), del d. lgs. 81/08, in riferimento alla violazione di cui all’art. 71, comma 7, lettera a), del medesimo decreto in relazione ai rischi che come un qualsiasi altro lavoratore potrebbe indurre ai terzi.

L’interpello del Ministero del Lavoro n.1/2020

FONTE: BIBLUS- NET

Proseguendo nell’esame dei casi di non responsabilità dei soggetti obbligati in materia di salute e sicurezza sul lavoro per un infortunio accaduto in azienda si segnala una recentissima sentenza della Corte di Cassazione con la quale la stessa ha annullata una sentenza di condanna inflitta a un RSPP nei due primi gradi di giudizio ritenuto responsabile, unitamente ad altri soggetti obbligati, per un infortunio mortale occorso a un lavoratore, nell’azienda nella quale prestava la propria attività lavorativa, rimasto schiacciato da un tratto di condotta per l’adduzione dell’aria a un bruciatore, del peso di 600 chili, caduto durante alcuni lavori di manutenzione. L’accusa nei suoi confronti era stata di avere omesso di individuare e valutare i rischi delle operazioni che si stavano eseguendo al momento dell’evento infortunistico. Nella sentenza la suprema Corte ha trovato l’occasione di ribadire un orientamento ormai consolidato in giurisprudenza e cioè che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione risponde per un infortunio, a titolo di colpa professionale e unitamente al datore di lavoro, ogniqualvolta lo stesso sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare al datore di lavoro. Risponde comunque dell’evento, in altri termini, solo se viene fornita adeguata dimostrazione che abbia svolto in maniera negligente la sua attività di consulente del datore di lavoro a seguito di un errore tecnico nella valutazione dei rischi, per avere fornito suggerimenti sbagliati o per avere mancato di segnalare situazioni di rischio colposamente non considerate, tutte cose che nella circostanza non si sono verificate. Nella sentenza impugnata, ha osservato la Cassazione, è sembrato che la Corte territoriale avesse confuso il piano intellettivo/valutativo, proprio del RSPP, con quello decisionale/operativo proprio di altri garanti della sicurezza, fra i quali principalmente il datore di lavoro, essendo risultato che l’evento infortunistico fosse stato determinato da scelte esecutive sbagliate non spettanti comunque al RSPP che in genere non è presente tutti i giorni in azienda e non è tenuto a controllare le fasi esecutive delle lavorazioni. La responsabilità del RSPP, infatti, nel caso in esame è stata individuata, essenzialmente, in un omesso intervento in fase esecutiva che è estraneo alle competenze consultive/intellettive del RSPP e senza che sia stato comunque adeguatamente argomentato in ordine alla conoscibilità, da parte sua, della situazione oggettivamente pericolosa e al suo dovere di segnalare il rischio al datore di lavoro in una fase antecedente alla lavorazione stessa.

Il fatto e l’iter giudiziario

La Corte di Appello ha confermata la sentenza di primo grado che aveva dichiarato il direttore di uno stabilimento, un caporeparto, il datore di lavoro di un’impresa di manutenzione e il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) colpevoli del reato di omicidio colposo in occasione dell’infortunio sul lavoro di un lavoratore di una ditta di manutenzione avvenuto nello stabilimento stesso. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, la mattina del’evento si era verificato un incendio interessante la ventola dell’aria primaria e la tubazione di mandata dell’aria stessa a un bruciatore dell’impianto di essicazione del cascame di legna per la produzione dei pannelli in truciolato. L’intervento aveva comportato lo sfilamento di una parte di tubazione, di notevole dimensione e del peso di 600 chili, posta ad una certa altezza da terra e l’infortunio era accaduto per la caduta, durante tali operazioni, della pesante tubazione sul lavoratore che si trovava nella zona sottostante. L’operazione in corso al momento dell’evento, secondo la testimonianza resa dal tecnico della ASL, non era eccezionale ed era stata già effettuata più volte in precedenza; era dunque prevedibile anche per la ditta esecutrice dei lavori di manutenzione per cui i giudici di merito avevano tratto la considerazione che i manutentori avevano proceduto “per tentativi”, senza adeguata formazione e senza che fosse stata prevista o indicata una modalità operativa apposita, senza avere valutato il rischio di caduta del tubo e avere predisposta un’opera confacente di sicurezza, quale ad es. l’installazione di un ponteggio metallico atto a sostenere la tubazione stessa. Al direttore dello stabilimento nonché delegato del datore di lavoro, era stato addebitato di avere consentito l’uso di attrezzature non adeguate per l’esecuzione in sicurezza del lavoro di spostamento laterale della tubazione; e di avere, inoltre, omesso di eseguire una riunione di coordinamento fra le ditte coinvolte nella esecuzione del lavoro, al fine di concordare le modalità di svolgimento delle operazioni e le misure di sicurezza da attuare. Al datore di lavoro dell’infortunato era stata addebitata l’omessa valutazione dei rischi per la sicurezza durante l’attività lavorativa, nonché l’incompletezza ed il mancato aggiornamento del relativo documento di valutazione dei rischi. Al caporeparto era stata addebitata l’omessa segnalazione al datore di lavoro che gli attrezzi messi a disposizione dei lavoratori per l’operazione in questione erano del tutto inidonei a garantire la sicurezza degli stessi e al RSPP dello stabilimento era stata addebitata l’omessa individuazione e valutazione dei rischi dell’operazione che si stava eseguendo, trattandosi di inconveniente che si era già verificato in passato.

Il ricorso in Cassazione e le motivazioni

Avverso la sentenza della Corte di Appello tutti gli imputati, a mezzo dei propri difensori. hanno proposto distinti ricorsi per cassazione. I primi tre imputati hanno basato il loro ricorso su una erronea ricostruzione dei fatti che gli stessi hanno ritenuto non fondata su basi scientifiche e contrastante con le prove emerse, che avrebbero evidenziato come la caduta della tubazione sarebbe stata determinata non da un errore nelle operazioni ma  da un imprevedibile cedimento strutturale di un sostegno della tubazione stessa.

 

Il RSPP, invece, nel suo ricorso ha lamentata una erronea applicazione del D. Lgs. n. 81/2008 per non essere stata individuata correttamente la responsabilità di un RSPP per un infortunio e per una non corretta individuazione dei parametri di giudizio applicabili a tale figura prevenzionistica.

La condotta cautelare richiesta dal legislatore al RSPP, ha evidenziato il ricorrente, trova ed esaurisce il proprio contenuto in un processo intellettivo (individuazione/valutazione dei rischi) cronologicamente antecedente tutte le fasi decisionali/operative/tecniche/di controllo dell’attività lavorativa, che competono, invece, ad altre figure prevenzionistiche. Quella del RSPP è una prestazione di tipo squisitamente consultiva, visto che lo stesso è un mero ausiliario del datore di lavoro, privo di autonomi poteri decisionali. Ha inoltre osservato il ricorrente che erroneamente i giudici di appello avevano attribuita la responsabilità della presunta non corretta esecuzione materiale dell’operazione di manutenzione anche al RSPP, ponendo a suo carico condotte omissive (omessa vigilanza, omessa fornitura di attrezzature, omessa pianificazione dell’intervento, omessa valutazione del rischio interferenziale) proprie di altre figure prevenzionistiche e deducendone la negligenza del processo di valutazione dei rischi. Un’esecuzione inidonea, ha sostenuto ancora il ricorrente, non significa necessariamente una valutazione carente, né l’inadeguatezza della strumentazione utilizzata dai lavoratori è imputabile al RSPP mentre nella sentenza è mancato del tutto qualsivoglia giudizio rispetto al contenuto del Documento di Valutazione dei Rischi. Il giudicante, secondo lo stesso, ha proceduto a ritroso, partendo erroneamente dal dato storico, invece di verificare prima la sussistenza della regola cautelare, poi la eventuale violazione di tale regola.

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione

La corte di Cassazione ha ritenuti infondati ed in parte inammissibili i ricorsi presentati dai primi tre imputati in quanto gli stessi si sono dilungati su aspetti tecnici riguardanti le caratteristiche tecnico-strutturali della tubazione coinvolta nel sinistro e chiedendo una rilettura dei fatti posti a sostegno della decisione che esula dai poteri della Corte di Cassazione e il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito.

La Cassazione ha ritento invece fondato il ricorso avanzato dal RSPP. Secondo la stessa le censure prospettate dal ricorrente hanno colto nel segno, là dove hanno evidenziato che le motivazioni della sentenza impugnata non hanno adeguatamente argomentato in merito alle sue responsabilità per il sinistro accaduto in azienda. La figura del RSPP, ha ribadito la suprema Corte, si caratterizza per lo svolgimento, all’interno della struttura aziendale, di un ruolo non gestionale ma di consulenza, cui si ricollega un obbligo giuridico di adempiere diligentemente l’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all’occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri.

La suprema Corte ha quindi convenuto con il ricorrente che la condotta cautelare richiesta dal legislatore al RSPP trova il proprio contenuto essenziale in un processo intellettivo (individuazione e valutazione dei rischi) cronologicamente antecedente le fasi operative/esecutive che attengono alle decisioni ed al controllo sullo svolgimento dell’attività lavorativa, che competono, invece, ad altre figure prevenzionistiche (tipicamente al datore di lavoro, ma anche al dirigente e al preposto). E’ pacifico, insomma, ha così proseguito la Sez. IV, che il RSPP non è destinatario di poteri decisionali, né operativi, né di doveri di vigilanza sulla corretta applicazione delle modalità di lavoro.

 

Chiarita la particolare posizione di garanzia riconducibile alla figura del RSPP, la suprema Corte ha evidenziato che le argomentazioni della sentenza impugnata sono apparse illogiche e contraddittorie laddove, da una parte, avevano addebitato agli imputati mancanze decisionali di carattere esecutivo che attenevano alla omessa predisposizione di un piano di intervento e di sicurezza specifico per l’operazione lavorativa in disamina e dall’altra, indebitamente equiparando la figura del RSPP, che è quella di un consulente, a quella del datore di lavoro e del preposto, che sono invece figure prevenzionistiche operanti nella quotidianità dell’attività lavorativa, avevano addebitano anche al RSPP di non avere individuato e valutato, nell’immediato, i rischi dell’operazione che si stava eseguendo.

Secondo la Cassazione, inoltre, la Corte territoriale, non aveva spiegato in che termini il RSPP sarebbe stato coinvolto nell’attività lavorativa in questione, certamente non quotidiana, limitandosi solo ad affermare che si sarebbe trattato di un intervento già svolto in precedenza in quanto conseguente ad un inconveniente che si era già verificato in passato. La sentenza di merito, inoltre, non aveva approfondito in alcun modo tale aspetto, al fine di stabilire se e come lo stesso RSPP fosse stato consultato, in precedenza, dal datore di lavoro in merito all’intervento specifico al fine di individuare e valutare i rischi di tale attività.

Da questo punto di vista la suprema Corte ha tenuto a ribadire l’orientamento secondo cui “in materia di infortuni sul lavoro, risponde a titolo di colpa professionale, unitamente al datore di lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ogni qual volta l’infortunio sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare al datore di lavoro”In altri termini, il RSPP risponde dell’evento, in concorso con il datore di lavoro, solo se si fornisce adeguata dimostrazione che lo stesso abbia svolto in maniera negligente la sua attività di consulente del datore di lavoro, a seguito di errore tecnico nella valutazione dei rischi, per suggerimenti sbagliati o mancata segnalazione di situazioni di rischio colposamente non considerate.

Nel caso in esame, invece, la motivazione della sentenza impugnata è sembrata aver confuso il piano intellettivo/valutativo (proprio del RSPP) da quello decisionale/operativo (proprio di altri garanti, principalmente il datore di lavoro). Si parla di evento determinato da scelte esecutive sbagliate, ma tali scelte non spettano al RSPP, il quale non è presente tutti i giorni in azienda e non è tenuto a controllare le fasi esecutive delle lavorazioni.

In definitiva, con riferimento alla posizione del RSPP, la motivazione della sentenza impugnata è stata ritenuta dalla Cassazione viziata, poiché la sua responsabilità è stata individuata, essenzialmente, in un omesso intervento in fase esecutiva che è estraneo alle competenze consultive/intellettive del RSPP, e senza che sia stato adeguatamente argomentato in ordine alla conoscibilità, da parte sua, della situazione oggettivamente pericolosa e del suo dovere di segnalazione del rischio al datore di lavoro, in una fase antecedente alla lavorazione stessa. Alla luce di quanto sopra detto, pertanto, la Corte di Cassazione ha annullata la sentenza impugnata nei confronti del RSPP, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di provenienza e ha rigettato i ricorsi degli altri imputati che ha condannato al pagamento delle spese processuali.

Gerardo Porreca

Fonte: PUNTO SICURO

SENTENZE | 50440/19 Sull’obbligo di formazione specifica e sulla condotta esorbitante del lavoratore

L’aver impartito correttamente le disposizioni antinfortunistiche ai dipendenti non esime il datore di lavoro dalle responsabilità in caso di evento dannoso se la causa dello stesso è da ricondurre all’inosservanza delle stesse disposizioni antinfortunistiche; è necessario che sia provato che il personale che ha subito l’infortunio non abbia agito in modo corretto, operando quindi in modo contrario ai precetti ricevuti.

Il Fatto

È il caso della sentenza che andiamo a presentarvi oggi, nella quale un titolare d’impresa è stato condannato a seguito dell’infortunio occorso ad un dipendente, autista addetto al trasporto di materiali ferrosi, il quale cadeva dalla gru a torre che stava utilizzando per le procedure di trasporto di materiali ferrosi.

Le Accuse

In particolare, al datore di lavoro, sono state contestate dalla Corte di Appello l’omissione della definizione di procedure di utilizzo delle macchine e attrezzature di lavoro nelle operazioni di carico e scarico dei materiali e l’omissione della formazione sui rischi specifici.

IL Ricorso

Ricorrendo a tali accuse, l’imputato deduce la violazione di legge ed il vizio motivazionale, portando come prova l’adempimento del proprio obbligo di formazione (prova ritenuta valida), oltre a questo sottolinea che il dipendente infortunato sarebbe stato abilitato all’esclusiva mansione di trasporto di materiale e non anche allo scarico e di averlo diffidato più volte da questa procedura, sottolineando in questo modo la condotta esorbitante della vittima.

La Sentenza della Corte di Cassazione

Gli Ermellini si esprimono avversamente al ricorso presentato sottolineando che la formazione impartita fosse di tipo generico e non si estendesse ai rischi specifici ai quali il dipendente era sottoposto. Per quanto concerne il secondo motivo di ricorso, la condotta esorbitante del dipendente può essere presa in considerazione in quanto lo scarico di materiale è assolutamente riconducibili alle mansioni di trasporto e quindi l’infortunio è avvenuto durante l’esercizio dell’attività lavorativa.Terminano la Sentenza i Giudici della Corte Suprema: “Va sottolineato che la prova di una condotta omissiva risente della struttura ontologica di tale comportamento, che si traduce in una materiale assenza, sicché solo colui su cui grava l’obbligo di porre in essere la condotta può e deve fornire indicazioni relativamente al corretto adempimento. Difatti, nell’ordinamento processuale penale, pur non essendo previsto un onere probatorio a carico dell’imputato, modellato sui principi propri del processo civile, è, al contrario, prospettabile un onere di allegazione, in virtù del quale l’imputato è tenuto a fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore (da ultimo, Sez. 4, n. 12099 del 12/12/2018 ud. – dep. 19/03/2019, Rv. 275284 – 01). Parimenti va ricordato che, secondo la giurisprudenza più risalente, quando l’inosservanza di precise disposizioni antinfortunistiche nell’ambiente di lavoro è causa determinante dell’evento dannoso, per escludere la responsabilità dei datori di lavoro, dei preposti o degli addetti alla organizzazione o alla sorveglianza del lavoro, non è sufficiente che non risulti provato con certezza che essi non hanno impartito disposizioni, ma è necessario che tali persone provino, in maniera rigorosa e sicura, di avere compiuto atti precisi e specifici intesi ad impedire che le operazioni di lavoro si svolgessero in modo non conforme ai precetti antinfortunistici (Sez. 4, n. 9615 del 19/04/1982 ud. – dep. 20/10/1982, Rv. 155686 – 01).”

Introduciamo questa breve rassegna – condotta come sempre senza pretese di esaustività – illustrando due interessanti pronunce che sono state selezionate per il loro interesse e che hanno sottoposto a verifica l’adozione e l’efficace attuazione del Sistema di Gestione per la Salute e Sicurezza secondo lo standard BS OHSAS 18001:2007 da parte di due aziende in relazione alla valutazione dell’idoneità a fini esimenti del Modello organizzativo previsto dall’art.30 D.Lgs.81/08 e dagli articoli 6 e 7 del D.Lgs.231/01. Seguirà l’analisi di una sentenza di Cassazione dell’anno scorso che, nel pronunciarsi sulla responsabilità penale di tre persone fisiche per un infortunio sul lavoro, ha affrontato il tema del rapporto esistente (con riferimento al caso specifico) tra i Sistemi di Gestione Qualità – e relative istruzioni operative – e le procedure contenute nel Documento di Valutazione dei Rischi.

L’implementazione e la concreta attuazione del Sistema di Gestione BS OHSAS 18001 in relazione all’idoneità del Modello Organizzativo 231: una importante sentenza di merito del 2016 e una sentenza di Cassazione Penale di quest’anno

Analizziamo il primo dei due casi giurisprudenziali.

La vicenda processuale su cui si è pronunciata l’importante sentenza Tribunale di Catania, IV Sez. Pen., 14 aprile 2016 n.2133 “trae origine dalla morte di due operai, V.G. e C.F.L., in un cantiere di R.F.I., che si assume avvenuta per violazioni della normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro”.

 Ad R.F.I., quale persona giuridica, viene contestato l’illecito amministrativo di cui all’art.25-septies D.Lgs.231/01, in relazione al reato di omicidio colposo con violazione di norme di salute e sicurezza commesso – nell’interesse e a vantaggio di R.F.I. – da C.C. (che viene ritenuto colpevole) quale “1° tecnico della manutenzione della R.F.I. e soggetto sottoposto alla direzione o alla vigilanza dei dirigenti di unità organizzativa dotata di autonomia […], i quali rendevano possibile la commissione del reato presupposto non seguendo le regole organizzative interne poste a tutela dell’incolumità dei lavoratori e non vigilando sul rispetto delle stesse da parte del personale dipendente.” Nel corso del procedimento, tra gli altri, “era stato sentito il consulente tecnico della difesa, Ing. …, già responsabile del sistema di gestione integrale della sicurezza di R.F.I. All’esito dell’esame, veniva acquisito l’elaborato tecnico redatto dal consulente.”

 Il Tribunale esclude la configurabilità in capo ad R.F.I. della responsabilità amministrativa della stessa quale persona giuridica in virtù della mancata sussistenza dei presupposti di cui all’art.5 del D.Lgs.231/01 oltre che per la dubbia ricorrenza dell’interesse o vantaggio (data l’estemporaneità della condotta della persona fisica) e per assenza di colpa di organizzazione “atteso che […] i due cantieri di lavoro erano stati correttamente organizzati, con sufficiente dotazione di uomini e mezzi.”

 E’ interessante notare come il Tribunale a questo punto del ragionamento sottolinei e valorizzi le seguenti circostanze: “sotto altro profilo, deve rilevarsi che la difesa di R.F.I. S.p.A. ha prodotto copia del “Modello Organizzativo e di Gestione” ai sensi e per gli effetti del D.Lgs.n.231/2001, parte generale e parte speciale, nell’edizione del febbraio 2006. Agli atti v’è, inoltre, copia delle due versioni successive del M.O.G. adottato da R.F.I., datate …, dei verbali di riunione del CGL sulla sicurezza sul lavoro, delle certificazioni di conformità agli standard internazionali rilasciata a R.F.I. nel luglio 2006 (Sicurezza della Circolazione Treni e dell’Esercizio Ferroviario – ISO 9001/2000-, “Salute e Sicurezza sul Lavoro” – BS-OHSAS 18001/1999-, “Tutela Ambientale”- ISO 14001/2004) e delle successive conferme alle scadenze triennali, nel 2009 e nel 2012.” (Si vedano in proposito anche Tribunale di Milano, Sez.VI, 24 settembre 2014 n.7017 e Tribunale di Milano, 26 giugno 2014, Martorelli). Ancora più nel dettaglio, la sentenza precisa che “lo stato dell’arte è stato efficacemente riassunto dall’ing. … nella relazione di consulenza tecnica depositata. Ad essa si può quindi fare ampio riferimento, in quanto esaustiva e riscontrata dalla documentazione prodotta.

Nell’elaborato viene ripercorsa l’adozione, il 27 settembre del 2004, da parte del Consiglio di Amministrazione di R.F.I. S.p.A., del “Modello di Organizzazione e di Gestione” (MOG) aziendale, successivamente aggiornato nel 2006, 2009 e 2012.

Si espone che R.F.I., fin dai primi anni 2000, aveva elaborato un apposito Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro -SGSL-, risultato conforme allo standard internazionale BS-OHSAS 18001, come da certificazione rilasciata nel luglio 2006.”

 Il Tribunale precisa che “il SGSL era una delle tre sezioni che componevano il Sistema Integrato di Gestione della Sicurezza – SIGS -, che trattava in modo omogeneo i seguenti ambiti della sicurezza: Sicurezza della Circolazione Treni e dell’Esercizio Ferroviario; Sicurezza e Salute sul Lavoro; Tutela Ambientale. Esso era composto da una parte comune ai tre ambiti di sicurezza (Qualità, Lavoro, Ambiente), alla quale si aggiungeva una parte specifica per ognuno dei citati settori specialistici.

Il SIGS è stato recepito nel Modello Organizzativo e Gestionale (MOG) della società, di cui costituisce, quindi, una componente fondamentale.” Dunque “agli atti, come già anticipato, sono versate le copie del MOG adottate negli anni da R.F.I., a partire dal 2006 e le certificazioni di conformità del Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro adottato da RFI allo standard internazionale BS-OHSAS 18001.”

 In conclusione, il MOG è ritenuto idoneo in quanto “la lettura del documento, nella versione coeva, quella del 2006, ne evidenzia la conformità ai requisiti indicati dall’art.7 D.L.vo cit., nonché dall’art.30 D.Lgs.n.81/2008. Nessun rilevo, o censura, è stata, peraltro, mossa dalla pubblica accusa al riguardo. E lo stesso è a dirsi per il profilo dell’efficace attuazione del modello.”

 Proseguiamo ora l’analisi passando alla seconda pronuncia giurisprudenziale cui si è fatto cenno (Cassazione Penale, Sez.IV, 8 luglio 2019 n.29538). Con questa sentenza la Corte ha sancito la responsabilità amministrativa – ai sensi del D.Lgs.231/01 – di una acciaieria, quale persona giuridica, in relazione alla condanna di tre persone fisiche ad essa appartenenti per il reato di omicidio colposo commesso con violazione di norme di salute e sicurezza.Questi sinteticamente i fatti: l’infortunio si era verificato all’interno di un capannone del reparto verniciatura della acciaieria, “allorché il lavoratore dipendente R.M., operaio esperto, addetto al reparto verniciatura con qualifica di capo turno, dopo avere rimosso le protezioni, senza fermare l’impianto di verniciatura, definito “verniciatura nastro”, di recente installazione e destinato alla produzione di nastri in acciaio (coils) verniciati (che venivano “sbobinati” per passare in cabina verniciatura, verniciati, infine riavvolti per essere commercializzati), accedeva all’interno della zona pericolosa adiacente per verificare se i rulli della zona denominata “briglia 4” fossero la causa di un difetto rilevato sul nastro e, svolgendo tale operazione, rimaneva incastrato con il braccio sinistro tra il rullo di trascinamento e quello preminastro, con conseguente distacco dell’arto” e decesso del lavoratore.

Per quanto concerne la responsabilità della persona giuridica, prima in Corte d’Appello e poi in Cassazione è stato “ritenuto il reato presupposto in capo agli imputati e la mancanza di un’efficace attuazione, da parte dei dirigenti aziendali, del modello organizzativo e di gestione adottato dalla società per prevenire reati della specie di quello contestato (tradottasi nella mancata previsione di modalità operative di ricerca e soluzione in sicurezza dei difetti sui nastri dell’impianto di verniciatura e nella mancata individuazione delle modalità di controllo dei sistemi di sicurezza installati sulla medesima linea produttiva)”, nonostante l’azienda avesse implementato un Sistema di Gestione SSL secondo lo standard OHSAS 18001.

La Cassazione precisa in merito che, “quanto al modello organizzativo, […] l’Acciaieria A. S.p.A. ne aveva adottato uno, certificato conforme alle norme BS OHSAS 18001:2007 che, tuttavia, per come emerso dalla relazione del personale ASL, non era stato efficacemente attuato, poiché la procedura non riportava le modalità operative di ricerca e soluzione del difetti sul nastro, quell’attività, cioè, alla quale era intento il R.M. al momento dell’infortunio.”

 Pertanto, “mancando un monitoraggio sulle misure prevenzionistiche, la procedura non era stata adeguata ai rischi effettivamente esistenti in quello specifico segmento di attività, essendo pure emerso dalle relazioni semestrali che l’organismo di vigilanza non aveva posto in essere, a causa di ritardi aziendali, le attività propedeutiche a tali controlli.”

 Da tutto ciò la Cassazione conclude che “il modello organizzativo adottato, sebbene conforme alle norme BS OHSAS 18001:2007, non era stato efficacemente attuato, come richiesto dall’art.6 co.1 lett.a) del d.lgs.231 del 2001: pur essendosi provveduto all’analisi dei rischi con riferimento all’impianto di verniciatura e, segnatamente, all’attività dei capi turno, l’istruzione operativa predisposta era incompleta (IO VERN 01 del 18/01/2014) rispetto alle modalità di ricerca e soluzione dei difetti sul nastro (l’attività, per l’appunto, che stava svolgendo la vittima nell’occorso).”

Ed “inoltre, le istruzioni operative IO VERN 02 e 03 riguardavano altre figure professionali (addetto cabina verniciatura e addetto linea uscita verniciatura) e tutte le altre (da 04 a 015) erano riferibili alla manipolazione e allo stoccaggio di prodotti e smalti vari per impianti di verniciatura.”

La Suprema Corte sottolinea poi che “ulteriori addebiti erano stati segnalati dalla ASL, anche con riferimento alle attività di audit e ai ritardi nella esecuzione delle attività previste dall’Action Plan (in particolare, nella redazione delle procedure per effettuare i controlli, poiché l’avvio delle attività di verifica in materia di salute e sicurezza era stata pianificata per il febbraio 2015).”

Replicando alla difesa dell’azienda, la Cassazione specifica infine – confermando così la decisione della sentenza impugnata – che “il giudice d’appello non ha formulato le sue valutazioni sulla scorta di meccanismi presuntivi, né operato un’inammissibile sovrapposizione tra la violazione delle norme prevenzionali e la insufficienza delle procedure adottate: contrariamente a quanto affermato in ricorso, l’attenzione del giudice si è focalizzata sull’inefficace attuazione del modello adottato, sia con riferimento alla mancata previsione di istruzioni operative per l’attività di rilevamento del difetti sopra descritta; che avuto riguardo all’attività di monitoraggio, anch’essa inadeguata rispetto ai rischi esistenti e alla realizzazione di un sistema di vigilanza – da parte del competente organismo – che riguardasse l’attuazione del modello organizzativo e non la concreta osservanza, nei luoghi di lavoro, delle norme in esso previste, come affermato dalla difesa.”

I Sistemi di Gestione Qualità e le responsabilità penali delle persone fisiche per infortunio: le istruzioni operative del Manuale Qualità in relazione alle procedure del DVR

 Concludiamo questa disamina con una sentenza di legittimità dell’anno scorso Cassazione Penale, Sez.IV, 20 luglio 2018 n.34311che ha condannato per il reato di omicidio colposo il datore di lavoro, il direttore di stabilimento e l’RSPP di una S.r.l. per aver “consentito, cooperando tra loro con condotte indipendenti, che il C.P. [lavoratore, n.d.r.] eseguisse operazioni di ingrassaggio delle parti interne della vasca di mescolamento di un impianto di betonaggio, installato presso la A. s.r.l., senza che, da parte del G.G., fosse stato redatto un DVR che individuasse i fattori di rischio connessi alle dette operazioni, necessarie prima dell’inizio di ogni ciclo di produzione di calcestruzzo e che comportavano l’ingresso di un lavoratore in zona ad alto rischio”.Inoltre essi avevano disposto e consentito “che tali operazioni avvenissero in un impianto privo di una bobina di sgancio di minima tensione” e non avevano “predisposto […] una procedura di verifica, anche periodica, dell’efficienza delle sicurezze dell’impianto elettrico”. Si imputava poi ai ricorrenti la “omessa individuazione dei fattori di rischio con riferimento all’esecuzione quotidiana delle attività di ingrassaggio delle parti interne della vasca di mescolamento del detto impianto, e di non aver contribuito all’elaborazione di un adeguato DVR da parte del datore di lavoro”.

Su questo ultimo punto, la sentenza precisa che il DVR era “un documento palesemente e incontestatamente lacunoso. A tali lacune non suppliva il sistema di qualità, invocato a difesa quale parte integrante e complementare del DVR, in quanto volto ad una finalità diversa, quella cioè di garantire la realizzazione del prodotto nel rispetto degli standards di qualità e sicurezza, in favore dei clienti. In ogni caso le istruzioni operative, che componevano il manuale del Sistema Qualità, elencavano semplicemente le operazioni da compiere, ma non si soffermavano sulle modalità di esecuzione ed i connessi rischi – anzi era prevista una pericolosa accensione della betoniera prima dell’ingrassaggio delle pale – e comunque non erano integrative del DVR, non presentando i contenuti legislativamente previsti per tale documento.”

Quanto infine alla posizione dell’RSPP, egli “assume di aver perfettamente adempiuto all’incarico affidatogli: in calce al manuale della sicurezza, della prevenzione e protezione dei rischi sul lavoro del marzo 2011 si rimandava infatti agli allegati al manuale della sicurezza del 15.9.2004 ed alle procedure identificate nel manuale del sistema di qualità, nel quale ultimo erano state date le opportune indicazioni e prescrizioni su come dovesse essere svolta proprio l’attività di lubrificazione ed ingrassaggio in parola. Tale assunto difensivo […] comprova che l’imputato era pienamente consapevole del fatto che l’operazione di lubrificazione andava svolta quotidianamente e che, ciò nonostante, nel DVR e nei suoi aggiornamenti erano stati totalmente pretermessi i profili di rischio connessi allo svolgimento di tale attività, da sottoporre al datore di lavoro.”

 

Anna Guardavilla

Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro

Fonte: PUNTO SICURO